Umbria “Shock economy”

 


La necessità e la scelta: allocazioni scriteriate e strategie di Shock Economy dietro il proge C.A.S.E.

Posted by EpicentroSolidale on 6/18/09 • Categorized as Repost
Di Antonello Ciccozzi:

Abstract: il progetto C.A.S.E. per i terremotati aquilani si configura sempre di più come un’operazione orientata in base agli stilemi della shock economy; esso rappresenta una soluzione finalizzata, prima che all’aiuto delle popolazioni terremotate, al profitto di grandi aziende affiliate al Governo, che non  tiene conto della varietà degli habitat culturali in cui si vuole calare, e che non basterà a togliere tutti gli sfollati dalle tendopoli. Pare necessaria una revisione parziale di tale progetto e una pronta messa a disposizione di moderni containers al fine di emancipare gli sfollati dal giogo delle tende.
La varietà degli habitat culturali dell’aquilano si manifesta nella preponderanza della differenziazione tra i luoghi urbani e i luoghi rurali. Per chiarire il discorso che qui si propone, questa compresenza può essere schematizzata descrivendo nostro Comune come un territorio, per così dire, a “due colori”: zone “verdi” (i contesti rurali) affiancano un centro “blu” (la città e la sua estensione periferica, che grossomodo forma una linea prossima all’asta fluviale dell’Aterno, tra i due bastioni montuosi che cingono la valle, sfumando tra Preturo e Bazzano). Spesso non si tratta di demarcazioni nette, e vi sono luoghi in cui si assiste a una mescolanza più o meno contrastiva di questi elementi (ad esempio la zona tra Bazzano e Paganica, in cui, a qualche chilometro dalla città, il nucleo industriale occupa un territorio dove permane una consistente vocazione agricola, oppure verso Sassa, al limite Ovest dell’espansione urbana), altre volte la connotazione rurale dei luoghi appare più netta (come a Roio Piano o a Camarda). Il punto, per quanto ci riguarda, è però che tali peculiarità non possono essere in nessun modo omesse da qualsiasi progetto di pianificazione territoriale che contempli la necessità di preservare la qualità della vita; ignorare questi aspetti è viceversa indice di orientamenti votati unicamente al perseguimento di interessi economici, a discapito del valore della qualità della vita.
Come ho scritto non appena i particolari ne furono rivelati2, il problema principale del progetto C.A.S.E. – che il governo Berlusconi, grazie l’avallo di Bertolaso, ha indicato alla Protezione Civile e successivamente calato sul comune dell’Aquila – è il seguente: la tipologia abitativa che, nella forma dell’offerta di aiuto, lo Stato cerca di imporre alla cittadinanza, in troppi casi non tiene conto della differenza di habitat culturali presente nel nostro comune. Questa si manifesta, appunto, lungo un continuum urbano/rurale caratterizzato da una serie di punti di soglia: discontinuità identitarie in cui i paesi esperiscono il sé collettivo in termini di pronunciata rural ità, e la città manifesta, ovviamente, una vocazione all’identità urbana. In parole semplici: qui come altrove la città è città e il paese è paese. Questo significa varietà, preservare la varietà è un valore in quanto essa è antitodo contro l’isotropia; un luogo che presenta una varietà interna armoniosa è un luogo dove si può scegliere, e la scelta è la premessa per la libertà.
Perciò non può passare in sordina che il progetto C.A.S.E. porterà – in molti tra i venti siti scelti per l’allocazione – una tipologia abitativa condominiale in contesti rurali; in luoghi  dove, da anni, abbiamo scoperto che è così importante che nei piccoli borghi si curi l’essenza del luogo che i vincoli paesaggistici impongono una tipologia consona anche per i coppi dei tetti. Nel Parco Nazionale, dove anche le tegole devono essere di un certo tipo, si semineranno condomini, case di città. Non è un problema di essenza ma di posizionamento, non di forma abitativa ma di allocazione, non di elemento ma di relazione: è come mettere un divano in cucina o una lavastoviglie in salotto. È una scelta, in molti tra in venti siti individuati nel Comune, totalmente scriteriata. L’onere di preservare il luogo – di certo un obiettivo difficile dopo la tragedia che ci ha colpito – è l’onere di preservare la qualità della vita; la necessità portata dal disastro limita il campo di scelte, ma non può diventare un pretesto per legittimare qualsiasi scelta.
 
Va ricordato che la scelta che si sta attualmente perseguendo – quella di una new town a connotati urbani disintegrata entro contesti spesso rurali, la 2) nel disegno esplicativo – è esito di una opposizione plebiscitaria dei poteri locali alla proposta governativa di costruire una new town unitaria e omogenea, schematizzata dal modello 1). Quella che non è stata invece perseguita è una strategia allocativa – probabilmente la più razionale – basata su criteri di prossimità e su una differenziazione architettonica tra edilizia urbana e rurale, schematizzata dal disegno 3). In molti sospettano che, più che la qualità della vita dei cittadini, si sia scelto di difendere il prestigio economico dei terreni contigui alla periferia urbana, più che il valore della tutela identitaria si sia pensato a interessi delle lobbies locali3. Lo Stato ha imposto al Comune una tipologia abitativa unitaria, e il Comune ha ottenuto come contropartita la possibilità di tutelare dal borseggio degli espropri alcuni terreni? Così si vocifera, e non sarebbe la prima volta che in Italia si manifestano tali gradi di priorità nelle scelte pubbliche. I poteri locali ormai dichiarano paternalisticamente: “lo sappiamo che è un obbrobrio, ma ce lo hanno imposto, meglio di così non si poteva fare”. Siamo sicuri?
Forse è troppo tardi per ripensare in profondità a questa decisione che – nel sensazionalismo dei primi giorni di emergenza – è stata propinata alla nostra città grazie alla fretta di cui si serve la shock economy per imporsi ai luoghi. Forse no, c’è ancora spazio per la volontà: non tentare sarebbe una colpevole mancanza; specialmente nell’idea che si potrebbe non rigettare tutto il progetto, ma proporre, per alcuni siti, una revisione dei criteri di allocazione di questi edifici. Nei territori più “verdi”, dove queste case minacciano di stuprare il carattere del luogo – e, nel contempo, di costringere gli abitanti della città alla deportazione rurale – c’è bisogno urgente di sollecitare un ripensamento, una richiesta di negoziazione nella possibilità di rivedere le localizzazioni in cui maggiormente si manifesta l’inadeguatezza di artefatti urbani in situazioni profondamente ancora rurali. Allo stesso modo, per i paesi meno “verdi”, si potrebbe chiedere allo Stato una progettazione architettonica di questi condomini che sia più consona alle peculiarità dei luoghi staccati dalla cinta della periferia urbana.
Questo nella consapevolezza che ormai una parte consistente della popolazione (chi viveva in edifici con inagibilità strutturali) dovrà attendere molti anni prima di rientrare in casa propria: i circa 13000 posti letto previsti dal progetto C.A.S.E. spetteranno probabilmente a loro: probabilmente queste case in parte sono una necessità, ma andrebbero posizionate e pensate meglio, nella consapevolezza che non saranno affatto sufficienti a soddisfare tutte le richieste. Pertanto, contestualmente, per gli altri forse 20-30000 sfollati che avranno la possibilità di beneficiare di tempi di rientro più brevi (da pochi mesi a uno o due anni?) sarebbe il caso di pensare, seriamente e in tempi brevi, all’utilizzo di containers. Il governo si è servito probabilmente di un preconcetto diffuso a livello di immaginario collettivo nazionale: i containers sono invivibili. Certamente trent’anni fa quelli del terremoto dell’Irpinia – a cui implicitamente ci riferiamo per evocare timore, disagio, sofferenza – lo furono,  quelli del terremoto di Marche e Umbria pare non siano stati così male. Mentre oggi i containers (che si chiamano “moduli abitativi temporanei”), quelli di buona qualità, pare siano ben altra cosa, eccellenti nell’isolamento climatico, capaci di un confort accettabile per tempi lungi di certo infinitamente meglio delle tende. Però probabilmente i containers – conferendo più autonomia agli utenti – sarebbero stati meno adatti al fine di mettere sotto sequestro la popolazione e propinare alla città ferita ettari e ettari di cementificazione, appaltati quasi esclusivamente a ditte esterne.
Nelle tendopoli l’aiuto – sincero, onesto e innegabile di buona parte del sistema della Protezione Civile – si (con)fonde con sentori di colpo di Stato locale; la mano tesa a dare mimetizza la mano che prende. Qui la popolazione viene tenuta inebetita dalla necessità, viene privata di potere di scelta, addomesticata a qualsiasi ricatto politico, le masse degli sfollati sono costrette nell’inganno di promesse che sottendono molto probabilmente strategie più orientate al perseguimento di profitto economico che all’obiettivo dell’aiuto delle popolazioni terremotate. Le tendopoli spesso si rivelano come degli “altrove interni”, dei “non-luoghi” di concentramento dove la gente è resa dipendente da un sistema di sostentamento che esclude la città dalla riproduzione economica del tessuto sociale: se ci avessero dato i containers avremmo seguitato a fare la spesa nei posti di sempre, a mantenere una certa autonomia, così ci siamo ritrovati ostaggio del sistema degli aiuti. Con il passare dei giorni il “non vi mettiamo nei containers, vi diamo direttamente le case” si inizia a rivelare nel dubbio dell’inganno, nei termini di un “vi teniamo in tenda così possiamo fiaccarvi, mantenere un sistema di sostentamento centralizzato che costa 3 milioni di euro al giorno, propinarvi tonnellate di cemento che daranno profitto e lavoro a aziende a noi affiliate”. Ecco l’ambivalenza tra aiuto e sciacallaggio, ecco la strada per praticare strategie di shock economy: le grandi catastrofi sono eventi che sgretolano il tessuto sociale dei luoghi che colpiscono, questo costituisce per il capitalismo di conquista una ghiotta occasione. Nei terremoti, come nelle guerre c’è chi conta morti e danni e chi programma opportunità, in tali situazioni grandi investimenti sono proponibili e propinabili con estrema facilità in quanto – semplicemente – la necessità opprime la possibilità di scelta, e l’aiuto può diventare una strategia di profitto.

naomi klein
Il mondo alla rovescia del libero mercato  

Non c’è stata nessuna rivolta delle élite, ma una vera e propria controrivoluzione.
Intervista con l’autrice di «Shock economy», in Italia per presentare il suo libro.
La privatizzazione dei beni comuni e dei servizi sociali sarà più graduale che in passato, mentre maggiore attenzione sarà dedicata al conflitto di interessi. Ma è consolatorio affermare che stiamo assistendo al declino del neoliberismo
di BENEDETTO VECCHI

L’uscita di Shock economy (Rizzoli, pp. 620, euro 20,50, il manifesto del 15 settembre) ha avuto una critica stizzita del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, che ha riconosciuto a Naomi Klein il merito di denunciare l’«estremismo» dei neo-con. Allo stesso tempo, però, Stiglitz ha sostenuto, sul «New York Times» del 30 settembre, che quelle dell’attuale amministrazione statunitense sono solo degenerazioni, perché l’economia di mercato è il migliore strumento, se usato bene, per promuovere il benessere collettivo. Dunque, per Stiglitz, il problema non è il modello sociale e economico che il neoliberismo propone, quanto le persone che lo realizzano.
«Non credo – afferma Naomi Klein – che il problema siano gli errori umani. Il neoliberismo è stata una vera e propria controrivoluzione. Possono pure cambiare gli uomini, ma gli obiettivi rimangono sempre gli stessi: muovere una guerra di classe contro i lavoratori e privatizzare i servizi sociali».
L’intervista che segue è avvenuta a Roma, lasciando all’intervistatore l’amaro in bocca. Tante le domande da fare, poco il tempo a disposizione.

Nel tuo libro descrivi l’ascesa e l’affermazione del neoliberismo come un prodotto da laboratorio. Da una parte, la scuola di Chicago con Milton Friedman che «dava la linea». Dall’altra alcuni esperimenti pilota per poi applicare quelle dottrine nel Nord America, in Europa…
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milton Friedman era considerato un nostalgico di un’economia di mercato che non esisteva più. Il pensiero economico dominante era di tipo keynesiano. Le tesi della scuola di Chicago erano considerate l’espressione di un estremismo ideologico a favore del libero mercato fuori dalla realtà. L’economia statunitense era prospera grazie all’intervento statale e alla «collaborazione» tra sindacati e imprese. Tutto sembrava andare in un’altra direzione da quello che sosteneva Friedman. Certo la sua apologia del libero mercato era sicuramente più aderente agli interessi delle grandi corporation, ma nessun manager sarebbe intervenuto per sostenerlo. Allo stesso tempo, però, Friedman ha ricevuto ingenti finanziamenti da fondazioni prestigiose, nonché dal governo per continuare le sue ricerche. Le teorie economiche della scuola di Chicago non erano solo espressione di un’ideologia, ma anche di precisi interessi economici, quelli del big business.
Molti studiosi o analisti spesso descrivono il neoliberismo come una rivolta delle élite per sottrarsi al controllo dello stato. Non sono d’accordo, perché la storia della scuola di Chicago può essere considerata la cover story di una controrivoluzione, di una guerra di classe contro i sindacati e i diritti sociali dei lavoratori.

Tu sottolinei che l’insicurezza e i disastri ambientali sono usati come grimaldello per imporre politiche neoliberiste. Non credi, però, che proprio l’insicurezza possa diventare la spinta per un rafforzamento del welfare state? In fondo, lo stato sociale nasce anche per risolvere lo «shock collettivo» che aveva colpito gli Stati Uniti e l’Europa negli anni Trenta e Quaranta?
Gli shock collettivi possono essere usati per introdurre politiche neoliberiste se gli uomini e le donne sono disorientati, soli, se cioè sentono la loro condizione come precaria. In Italia, sono all’opera movimenti sociali che si battono contro la precarietà dei rapporti di lavoro, per i diritti dei migranti, contro la guerra. Il problema è se riescono a dare continuità alla loro azione, perché solo un loro rafforzamento può aiutare nella resistenza alle politiche neoliberiste.
Prendiamo Vicenza: il progetto di ampliare la base militare statunitense ha incontrato l’opposizione di gruppi, associazione, centri sociali. A Vicenza sono state evocate pessime prospettive per il suo sviluppo se i lavori saranno bloccati. Finora, la presenza dei movimenti sociali ha creato le condizioni affinché il ricatto sia stato rifiutato da parte della popolazione. Prendiamo la precarietà dei rapporti di lavoro. Ci sono movimenti che si battono contro di essa e per estendere anche ai precari i diritti del lavoro. Finora sono riusciti ad organizzare una parte del lavoro precario. Il passo successivo è di coinvolgere sempre più uomini e donne, riuscendo a depotenziare il ricatto a cui sono sottoposti molti lavoratori e lavoratrici. Credo, cioè che i movimenti debbano darsi un’organizzazione stabile, meno effimera per rafforzare la loro azione.
Nei miei viaggi di lavoro incontro uomini e donne che sentono moltissimo questa urgenza politica di dare continuità e forza alla loro azione politica. Possono forse peccare di ottimismo, ma mi sembra che molti movimenti si stanno muovendo in questa direzione.
Per quanto riguarda la tua domanda, anche io credo che bisogna sviluppare un altro tipo di organizzazione sociale. Non ritegno però che questa nuova organizzazione sociale debba essere introdotta dall’alto. Deve essere infatti sviluppata dal basso.

Nel tuo libro scrivi che il neoliberismo si caratterizza non tanto per l’occupazione dello stato, ma per la privatizzazione di alcune funzioni che gli competono, dalla difesa nazionale alla sanità alla formazione scolastica. C’è stato poi lo scandalo della società di «contractors» Blackwater in Iraq e molti analisti hanno denunciato come folle la privatizzazione della difesa nazionale. Stiamo assistendo al declino del neoliberismo? Oppure sono solo scosse di assestamento?
Il caso dell’uragano Kathrina è emblematico. Nei primi giorni dopo l’inondazione di New Orleans i media statunitensi hanno puntato l’indice contro le politiche di disinvestimento dell’amministrazione Bush per quanto riguarda la protezione ambientale. Appena le acque hanno cominciato a ritirarsi, gran parte dell’establishment liberista ha visto nell’uragano la mano divina che consentiva di cacciare gli abitanti poveri e gli afroamericani per lasciar spazio alle imprese private. Non credo dunque che il neoliberismo sia giunto al capolinea. È ovvio che lo scandalo della Blackwater qualche problema lo pone per i neoliberisti. Ma nei media mainstream non viene criticato il modello neoliberista, bensì l’operato di una singola impresa, in questo caso la Blackwater. Tutt’al più viene invocata una maggiore sorveglianza sull’operato di un’impresa privata che svolge una funzione statale, pubblica. Stiamo assistendo a un mutamento delle politiche neoliberiste. Ci sarà maggiore attenzione al conflitto di interesse, che negli Stati Uniti e anche qui in Italia è giunto al parossismo. Oppure, l’applicazione delle politiche neoliberiste sarà più graduale. Affermare però che siamo alla crisi del neoliberismo è un azzardo analitico autoconsolatorio.

 


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