PRIMA LINEA: LA LOTTA ARMATA NON FU TERRORISMO.

L’UNICO TERRORISTA FU LO STATO…

da globalproject.info

 "Noi di Prima Linea abbiamo fatto cose da pazzi…". Si apre così il film di Renato De Maria liberamente tratto dal libro di Sergio Segio Miccia corta, documento romanzesco imperniato sull’evasione di quattro detenute politiche dal carcere di Rovigo il 3 gennaio 1982.

Il film di cui tutti parlano e nessuno ancora ha visto, come recita il lancio di promozione, la cui gestazione inizia nel 2006, va preliminarmente preso in considerazione in riferimento alle polemiche che hanno preceduto la sua uscita nelle sale e addirittura la sua realizzazione. Sovvenzione ministeriale assegnata (1,5 milioni su 4,5), fatta poi oggetto di rinuncia dal produttore Occhipinti, poi nuovamente assegnata. Almeno per ora, dato che verrà erogata solo "una volta verificata l’aderenza del film al progetto approvato" (??) e Lucky Red sta ancora aspettando i quattrini per Il divo.

Cambio di titolo da Miccia corta a La prima linea ed esclusione di Segio e Ronconi dalla promozione. Disapprovazione manifesta di Napolitano e di magistrati come Spataro e Caselli: in particolare quest’ultimo ritiene diseducativo che i protagonisti siano così fighi. Pressioni, esecrazioni, intimidazioni, critiche preventive, atmosfera di pesante ostilità durante le riprese a Milano. Incontro con i familiari delle vittime chiesto e ottenuto dal ministro dei beni culturali Bondi: "un incontro spaventoso" secondo lo sceneggiatore Petraglia. Segio e Ronconi che pretendono il ritiro dei loro cognomi dai dialoghi. Segio che – con bella scelta di tempo – nella prefazione alla nuova edizione del suo libro sconfessa tutta l’operazione: tradito il suo pensiero. Goffredo Fofi sulle pagine de L’Unità che bolla i protagonisti come "una coppia di mediocri Bonnie e Clyde catto-comunisti". Il regista De Maria che sostiene di aver fatto comunque il film che voleva.

Considerato che tutto ciò, stanti le vigenti regole di marketing, va inquadrato soprattutto come pubblicità gratuita, la prima domanda di conseguenza è: si può fare un film sulla lotta armata degli anni 70/80 ? Debitamente riformulata la domanda potrebbe essere: si può fare un film che tratti di lotta armata e non di terrorismo? La risposta in questo caso è semplice: non si può.

L’unica lotta armata identificabile come tale è quella dei banditen, i partigiani dell’ultima guerra. Si può però fare – a determinate condizioni – un film sul terrorismo. Non si può trattare un tema di lotta armata – dentro o fuori le sale cinematografiche – in un paese in cui le vittime (del terrorismo) costituiscono una singolare categoria sociale. Tutelate nei processi e da normative di sostegno finanziario, ciò non di meno appaiono sempre a credito di riconoscimenti mai del tutto completati, ricoprendo spesso un ruolo extralegale di interlocutore in dinamiche di applicazione della giustizia penale e della sua esecuzione: ultimo in ordine di tempo il caso dell’estradizione di Cesare Battisti.

Nella fattispecie, nell’incontro preteso dal miracolato Bondi, la questione si è posta sull’opportunità di fare un film su di loro ma, interpellato, Mario Calabresi non ha voluto cedere i diritti del suo libro. Significativo il titolo dell’articolo a firma di Benedetta Tobagi, figlia del giornalista del Corriere Walter, sulle pagine di Repubblica: "Non ci sono risposte per noi, figli delle vittime del terrorismo". Un lungo elaborato critico sull’assenza di un ragionamento profondo circa il senso di quegli eventi che si chiude sul vuoto narrativo relativo all’uccisione del giudice Guido Galli. Al quale il figlio Giuseppe Galli risponde prontamente dalle pagine del Corriere argomentando malinconicamente sulla "folle ideologia" che alimentava i terroristi. Auspicando anch’egli che si voglia in futuro trattare la questione della parte delle vittime.

Tutto ciò premesso La prima linea è un discreto film di genere, in una confezione un po’ troppo televisiva, giocato sulla fisiologica simpatia che si suppone vada a chi tenta di ridare la libertà alla donna amata e sulla determinazione secondo la quale, come sostiene Bellocchio, "gli assassini per un cineasta sono più spettacolari delle vittime". E’ un’occasione mancata se invece lo consideriamo come un racconto di formazione relativo alle scelte che conducono due giovani poco più che ventenni, uno di modesta famiglia operaia e l’altra di famiglia borghese benestante, fino all’omicidio politico.

De Maria ci dice che in 98 minuti non si può fare proprio tutto e che un ragionamento per successive approssimazioni è comunque visibile: dalla appartenenza a Lotta Continua, passando per i picchetti operai, gli attentati contro le cose, le prime gambizzazioni, l’omicidio di un giudice che ha appena accompagnato a scuola suo figlio, fino all’audacia di una procurata evasione da un carcere. Ma ci vuole un occhio esercitato per intravedere nel cassetto in cui viene riposta la prima pistola perfettamente funzionante una copia dei "Quaderni Rossi" di Panzieri e Tronti e la foto del cordone di apertura di un corteo. "Siete la prima linea di un corteo che non c’è", dice a Sergio il compagno che invece il salto del fosso non ha voluto farlo.

E il film sembra orchestrare solo attorno a questo assunto tutta la propria valenza morale. Un’atmosfera mortifera caratterizza il racconto dalla prima raggelata inquadratura in cui Sergio recluso recita un mea culpa che verrà più volte ripreso (…abbiamo fatto cose da pazzi…abbiamo scambiato il tramonto con l’alba) fino alla sintesi dell’iter giudiziario dei protagonisti che precede i titoli di coda. Nulla che alluda al grande sogno collettivo che in quegli anni ha accomunato centinaia di migliaia di giovani in una galassia di posizioni diverse, ma tutte con lo stesso orizzonte di rottura rivoluzionaria da realizzarsi anche attraverso l’uso della forza.

Sono difficili da identificare i riferimenti ideologici e culturali, la motivazioni e le aspirazioni, tanto quanto i drammi e le lacerazioni di in fenomeno che è stato comunque politico, sociale, di massa. Della stessa organizzazione Prima Linea non viene neanche abbozzata la consistenza (923 militanti processati, di cui 201 donne) e tantomeno la fine. Ottenuta principalmente grazie alla delazione giudiziaria (il cosiddetto pentimento) di uno dei suoi fondatori, Michele Viscardi: accusato di 17 omicidi non sconta praticamente neanche un giorno di galera.

Alla perversione della legislazione premiale nemmeno un accenno: forse Benedetta Tobagi avrebbe potuto ricordare quanto suo nonno Ulderico si batté, invano, contro quello scempio giuridico. Se l’osservanza delle prescrizioni ministeriali – secondo cui nessun sostegno finanziario può attribuirsi a un film apologetico – si è tradotta in un seriale riconoscimento dell’essere stati dalla parte del torto, è mancato per converso un quadro coerente di riferimenti alle responsabilità degli apparati dello Stato. Collusi con lo stragismo e il piduismo, nutriti da un sistema capitalistico di sfruttamento, edificatori della strategia della tensione, impegnati a costruire svolte autoritarie, non era certamente loro la parte della ragione.

Francesco Lorusso, Giorgiana Masi, Pietro Greco "Pedro" e tanti altri assassinati inermi e innocenti dalle nostre polizie non hanno lasciato figli delle vittime del terrorismo di Stato: non gliene è stato dato il tempo. Risolto il problema di non romanticizzare personaggi, avvenimenti e situazioni restano aperti quello della messa in scena del tragitto di (tras)formazione di un credo ideologico quanto quello della configurazione di un amore (per l’altro/a, ma anche per la vita) che appare svuotato di sentimento e passione. Resta la percezione di un’opportunità sprecata per dare risposte a chi, dopo trent’anni, si chiede perché una generazione si sia bruciata sul terreno della lotta armata. Restano da approfondire scelte di scrittura che fanno dire a uno dei personaggi minori "…non siamo come in uno di quei film che finiscono bene".

Resta, invece, solo e soltanto un film.

Marco Rigamo


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