IRENE E IL SUO FUTURO

Irene fece anche una telefonata alla cartomante della tivù, ma così per provare, per gioco. Voleva sapere se almeno da lì venissero notizie sul suo futuro. Aveva lavorato per neanche due mesi in un negozio, poi si era ammalata. Aveva perso il posto, e da quella volta tutti i suoi amici lì a farle coraggio, più che altro per abitudine. Erano diventati esperti nel farlo. Ma nemmeno la cartomante le era stata utile. Sì, tre o quattro frasette, le solite che prevede per tutti (anche lei, probabilmente, era una precaria che si era inventata indovina per sbarcare il lunario), ma niente di entusiasmante.

Era buffo ritrovarsi ad un’età in cui non hai un gran che come passato, e ancor di meno come futuro. A dirla tutta, neanche il presente era il massimo, ma almeno quello lo vedeva, lo poteva toccare. Sentiva che anche il passato degli altri, come ad esempio quello raccontato dai suoi genitori, o dai nonni, era in fondo anch’esso vago, con quelle storie che chissà perché dovevano suscitare invidia, quelle che cominciavano con un “ai miei tempi”. O che finivano spesso con quell’insopportabile “si stava meglio quando si stava peggio”. Ascoltava i suoi coetanei parlare dell’”attualità dei valori del fascismo” e le si confondeva in testa la storia, maneggiata come un elastico. Era conscia degli strumenti informatici, come YouTube, come Facebook, ma per lei erano una semplice forma di comunicazione, e non uno stare al passo coi tempi, per entrare nel futuro.

Il suo passato non l’aveva sentito mai come un presente, ma come un continuo prepararsi al futuro. Ora invece sentiva il presente, ma non vedeva futuro. Si ricordò della sua prof di italiano, che si lamentava (tra l’altro) che la gente non usasse più né il passato remoto, né il futuro semplice. Ebbe come un lampo, come quando capisci le cose dopo un po’ di tempo. Non era come la maestra delle elementari, che spiegava inutilmente l’importanza dell’uso del condizionale e del congiuntivo.

No, qui si trattava del fatto che nessuno volesse più pronunciare un qualsiasi verbo coniugato al passato remoto, e che avesse timore di coniugarlo al futuro, anche se semplice. Come se non si fosse più sicuri della propria vita vissuta, della bontà delle esperienze fatte o dei progetti sognati. E come se nei confronti del futuro fosse più utile non preoccuparsene, e più saggio temerlo. Un generico passato prossimo anche per avvenimenti distanti nel tempo, per non lasciarseli sfuggire. E un rassicurante tempo presente per ogni azione ed ogni pensiero riferiti al futuro, per non sentirseli troppo lontani.

Irene si rendeva conto che il proprio presente non durava un istante, si trattava di un qualcosa di non misurabile, dilatato o deformato. Era come stare sveglia dopo un sogno fatto e subito evaporato, e nell’attesa di un altro sogno da fare, nel quale in qualche modo leggervi altri segni. E lei fluttuava dentro questo suo largo presente, senza avere mai la sensazione di crescere, né d’invecchiare. Era solo il suo presente, Irene.


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