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PUGNI CHIUSI PER LO SQUOLARO VIK!!


NON FATECI GIRARE LE PALE! – 27 MARZO 2011

Quanto è alta una pala eolica di 150 mt?


DOMENICA 27 MARZO 2011

dalle ore 10,30 in poi

nella suggestiva location dei Piani Rotondi di Montevecchio di Pergola

 

verrà liberata una mongolfiera fino ad un altezza di 150 mt

(per capire l’effetto che fa una pala eolica sopra le proprie teste),

si pranzerà

si godrà del paesaggio insieme

 

Cittadini, comitati, associazioni del territorio si riuniranno per ribadire ancora una volta fortemente il NO al Progetto del PARCO EOLICO DEI PIANI ROTONDI.

 

Quel parco eolico che un gruppo di Progettisti esperti in energia eolica coadiuvati da qualche esperto in Delibere sta cercando di realizzare in uno dei più bei siti della Regione Marche.

 

Un programma all’insegna del vento, organizzato dal Comitato Cittadino “Eolico trasparente” e dal Network Squola Pergola, che comincerà già in mattinata alle 10e30 per discutere insieme del devastante progetto e delle conseguenze che porterà al territorio e ai suoi abitanti.

 

Ne prima ne ora nessuno tra i nostri amministratori si è preoccupato delle popolazioni del posto, dell’impatto sul territorio, della configurazione geologica quasi unica in Italia, delle abitazioni che distano pochi metri dalle torri, del fatto che studi scientifici hanno dimostrato il grave danno alle persone ,agli animali, ecc. Basta un progetto fatto da una Società venuta da chissà dove per modificare per sempre un territorio, svilire e disperdere una popolazione,distruggere un paesaggio ? Bastano qualche migliaia di Euro per distruggere tutto?

 

Torri eoliche alte come grattacieli installate un po’ dappertutto ormai in Italia e nei crinali appenninici, sull’onda di un generale e giustificato clima di euforia per le fonti energetiche rinnovabili, clima che però non dovrebbe mai prescindere dal rispetto di criteri di compatibilità col territorio nel quale gli impianti vengono calati e di rispetto, non soltanto formale, di un BENE COMUNE come il paesaggio tutelato dall’art. 9 della Costituzione.

l’acqua non si vende / l’aria non si compera

Squola Spa
Comitato cittadino “eolico trasparente”


PUGNI CHIUSI PER IL PARTIGIANO PISTOLA!!

PUGNI CHIUSI PER IL PARTIGIANO PISTOLA!

le nostre bandiere sono ancora al vento
muore un partigiano
NE NASCONO ALTRI CENTO!
Gianfranco Pistola, un Uomo del presente

Prima o poi sarebbe dovuto accadere che il tempo e le sue leggi avessero la meglio anche su una persona della tenacia e della voglia di vivere come Gianfranco, partigiano, Presidente dell’ANPI di Falconara, amico e compagno.
E’ un vuoto incolmabile che ci assale e ci lascia tutti più tristi.
Una perdita collettiva e personale per ciascuno di noi, per la Città di Falconara, per un intero territorio, per tutto quello che Gianfranco ha rappresentato negli anni, e per tutto quello che con straordinaria onestà e semplicità Gianfranco era veramente.
In questi tempi di crisi, di miseria morale e di devastazione sociale, ma anche di grandi lotte e di rivendicazioni di dignità, Gianfranco ci mancherà, e la sua assenza è un peso incommensurabile, senza eguali, irrimediabile.
Come senza misura e senza pari è stata la sua storia personale umana e politica.
Nel nostro piccolo, come ragazzi e attivisti del centro sociale di Falconara, ci sentiamo felici e fortunati per averlo conosciuto e per aver condiviso con lui tanto.
Sentimenti questi che ci appagano e consolano nella tristezza di oggi e ci spingono al dovere di ricordarlo e di cercare di trasmettere anche solo una piccola parte di questa esperienza e di questa mole di ricordi alle nuove e prossime generazioni.
Perchè Gianfranco, da uomo eccezionale qual era, ci ha lasciato tanto, a suo modo, e l’unico maniera per ripagare questa preziosa eredità ci pare quella di essere parte nel ricordare e praticare, oggi ogni giorno e sempre, quei valori…

Nessun altro come Gianfranco ha conosciuto tutte le generazioni di giovani che si sono succedute e hanno animato la storia quasi ventennale del nostro centro sociale. Per tutti, per chi oggi ha quarant’anni come per i più giovani  e giovanissimi, Lui era ed è la Resistenza. Nel suo viso forte e segnato dal tempo riconosciamo il portato di quegli ideali di lotta e di liberazione che tanto amiamo e che rappresentano anche oggi il nostro metro di comportamento, di giudizio, di azione, di discernimento tra il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso.
Senza nessuna nostalgia, contro ogni revisionismo.
Nessuno come lui è riuscito ad impersonare l’essere partigiano, l’essere radicalmente di parte, eppure e nel contempo un esempio per tutti, un interprete di valori così essenziali e veri capaci di universalizzare quella meravigliosa parzialità.

Oggi non c’è la voglia nè per i grandi discorsi, nè per la retorica, nè per la polemica.
Oggi ricordiamo e vogliamo condividere nell’intimità tutti quei momenti, piccoli  e grandi, che ci terranno uniti sempre:
tutte le volte che dopo le celebrazioni e il pranzo coi partigiani del 25 aprile il Pistola passava al Kontatto per continuare a conoscere e capire, ancora alla sua età, e per partecipare al 25 aprile dei giovani antifascisti;
i comunicati scritti con lui al computer di casa sua, dove annotava con precisione ogni evento dell’Anpi di Falconara, retaggio della disciplina resistenziale che gli era propria, che voleva tutto essere preciso, annotato, per i posteri;
le sue tante partecipazioni ai nostri cortei, anche nei momenti più difficili, ad infonderci, col suo fare, la tranquillità e la fermezza, di chi sa di essere dalla parte giusta, ieri come oggi;
l’idea  e la pratica del Falkatraz al Parco Kennedy il 25 aprile per socializzare la Festa della Liberazione, anche oltre l’ufficialità, comunque importante, per non rinunciare alla radicalità dell’antifascismo, trovando modi sempre nuovi per dargli spinta vitale, per farlo essere patrimonio di tutti, e mai solo di una parte;
le tante risate, le tante battute davanti ad un bicchiere di vino e con le sue consuete e immancabili sigarette, perchè Gianfranco era un uomo spassoso, divertente, che amava la vita, i giovani, la sua Città e la sua storia. Il Pistola era un uomo del presente e non ci rassegniamo, nemmeno ora, di parlarne al passato.

Oltre 70 anni fa quest’uomo ha combattuto i fascisti e partecipato alla Liberazione e alla Costituzione di quelle libertà di cui tutti oggi possiamo godere, che riverberiamo nelle lotte di oggi, perchè, pur messe in discussione, non si spengano.
Ma la cosa più bella è che per chi ha avuto l’onore e il piacere di conoscerlo, Gianfranco, era davvero un uomo del presente.
Così umano, con tutti i pregi e difetti propri della nostra natura, da far apparire il mito della resistenza e dell’essere partigiano che Lui, come nessun altro, impersonava, come cosa semplice e alla portata di tutti.
Così presente, da essere sempre sceso dai piedistalli della retorica e delle celebrazioni ufficiali, per vivere nelle contraddizioni di oggi, e di questa nostra Città.
Sei stato impareggiabile e senza eguali, con tenacia e semplicità, un esempio vero in questi tempi tristi e mediocri, che sapremo rivoltare come la tua generazione ci insegna.
Ne abbiamo fatte tante insieme, tante ne faremo grazie a te, portandoti nel cuore.
!Falkatraz Resiste!

I ragazzi e le ragazze del CSA Kontatto di Falconara


NESSUNA CAVA AL BIFOLCO!! UNA VITTORIA DI SQUOLA

L’avevamo scritto e ne eravamo convinti, sulla cave del Bifolco giocavamo grosso. L’avevamo detto, era la Stalingrado dell’Ambiente dell’entroterra.

Cinque anni di lotte, anche dure. E’ di ieri sera la notizia che la corte dei conti, massimo tribunale amministrativo, abbia definitivamente sentenziato che l’area dove doveva sorgere la cava del bifolco a Bellisio (Pergola PU), sia considerata di grande pregio ambientale e, come tale, non possa essere sottoposta ad attività estrattiva. Per ora non sappiamo molto di più se non che su questa battaglia, ma soprattutto su questa grande VITTORIA, in tanti proveranno a cavalcarla. Sarebbe una battaglia persa in partenza tenere amministrazioni e partiti, compiacenti, conniventi quando non complici (di una vicenda che ha risvolti anche tragicamente penali) dei cavatori, lontano da questa storia. Ma forse nemmeno ci interessa. Quello che interessa a noi è l’aver preservato un angolo di questo nostre grande Bene Comune che è il nostro territorio, perché possa essere la vera chiave di volta nel progetto di sviluppo a cui stiamo lavorando in maniera partecipata e trasparente, oppure, semplicemente, perché dalla valle del Cesano si possa guardare verso il Catria senza dover ammirare un cratere.  Questa Vittoria non è stato un dono di entità ultraterrene o aliene. E’ il frutto di una lotta politica pluriennale che, a suo modo, inciderà nella storia  sociale di questi territori. Una lotta politica che farà, se già non è già,  storia. Una lotta iniziata tra le mura di un centro sociale, sgomberato per questo motivo, ma che a saputo riscattarsi. Un riscatto passato nella rete di un lavoro politico ostinato, capillare, lasciatemi lodarCi. forse intelligente. Che sicuramente indicherà una via, di riscatto appunto. Non mi sento di ringraziare ne politici ne istituzioni. Mi sento invece di festeggiare innanzitutto e condividere con i miei compagni del collettivo, questo momento di soddisfazione. Ma anche con i cittadini di Bellisio e  con i curiosi militanti del Comitato Cittadino. Con i nostri compagni del movimento e con i vivaci cittadini della rete dei comitati provinciali, con le importanti associazioni ambientaliste. Una lotta.. Ignorante, nel senso più dialettale che sia possibile. Dove i Più Ignoranti hanno vinto. Ai Compagni, all’Ignoranza di Giampiero e dei bellisiani, a Luca, che nel luglio del 2005 ci disse “la combattiamo, ma è una guerra persa” e anche all’anonimo mandatario dei cavatori che venì ad offrirci un furgone  otto posti usato, in dono, se avremmo desistito dalla lotta. Non l’abbiamo accettato ma abbiamo viaggiato comunque. Eccome!

Nessuno verrà a RUBARCI LA BELLEZZA,  perché LA CAVA DEL BIFOLCO LA CHIUDIAMO CON IL FUOCO/ CON LE RUSPE DENTRO  perché se no, E’ POCO!!

AccacciElle


Cesare Battisti e la Vendetta dello Stato

Probabilmente risulta essenziale, allo stato dei fatti, chiarire a noi e forse ai compagni più giovani, che questo paese è stato attraversato da una guerra civile e una rivoluzione fallita, tra il 1969 e la metà degli anni ottanta. Se non si chiarisce questo passaggio, prima storico che politico, manca lo scenario di fondo per  un chiarimento, ben lungi dall’essere risolutivo, su quegli anni e sui tragici fatti legati alle stragi di stato e all’insurrezione armata. Senza delineare questo quadro di fondo mancano gli elementi per decriptare l’isterica propaganda politica manettara e forcaiola che traborda dai media borghesi, che striscia negli ambienti politici, che attiva gli elementi più beceri e reazionari che, da sempre, si annidano nel ventre purulento di questo stato e di questa nazione.

Lo Stato reagì al tentativo di riforma democratico della fine degli anni sessanta con i metodi del terrore, del carcere e della repressione. La castrazione delle istanze democratiche di trasformazione sociale generò naturalmente una resistenza armata con ambizioni rivoluzionarie. La mediazione che portò alla costituzione repubblicana del 1948, nel 1969, saltò. Troppo diverso il quadro internazionale che vedeva l’Italia caposaldo della cintura sanitaria costruita nel dopoguerra per arginare il pericolo sovietico. Gli americani non potevano tollerare che uno dei suoi più strategici stati fantoccio potesse essere messo in crisi da poteri che fuoriuscivano dal ristretto ambito atlantico-borghese. E fu il tempo delle bombe ei vagoni, nelle stazioni e nelle caserme. Dei morti nelle piazze, degli infiltrati, delle fucilazioni, dei pestaggi delle leggi speciali e dei teoremi Calogero.

Fu il tempo delle organizzazioni armate di massa.  Inquadrate militarmente nelle colonne brigatiste o provenienti dallo “spontaneismo armato” dei Proletari Armati per il Comunismo in cui, appunto, militò Cesare Battisti. La sconfitta, perché e di questa che è bene parlare, fu politica. Quella militare ne fu una conseguenza. Tutte le guerre finiscono con un armistizio. I cinquemila morti di quella guerra ancora l’aspettano. L aspettano i quasi 300 detenuti per motivi politici delle carceri italiane, la aspettano da più di trent’anni. Aspettano i parenti delle vittime, la temono i carnefici. Il grande rimosso storico della repubblica “delle banane” italiana. I fantasmi di quella stagione popolano ancora i sogni e l’immaginario della borghesia italiana.

Cesare Battisti è un fantasma. Svestito dall’umanità di un essere umano, rivoluzionario di una stagione di insurrezioni per scelta e esule per due terzi della sua disgraziata esistenza, Battisti ha assunto l’aurea di un incubo per le  classi dominanti vacillanti sotto i resistibili venti della globalizzazione. Una isteria che si alimenta nella paura e nel rancore.

Cesare è stato condannato avendo come unica prova due infami, che dopo aver scelto la strada della lotta armata, lo denunciarono, una volta catturati per un’altra soffiata di loro compagni di merende, sperando nella pietà dello stato per i delatori. La famosa legge sui “dissociati”, 4 nomi e scompariva la condanna per anni di eversione armata contro i poteri dello stato. Una legge, appunto, per infami.

Il tipone in sedia a rotelle che appesta in questi giorni le nostre televisioni è uno che è stato gambizzato dal padre, che in un’altra delle sue epiche uscite degne di uno spaghetti western aveva impiombato dei ragazzi in una pizzeria perché riteneva che potessero insidiargli dei gioielli che non era riuscito a vendere in una vannamarcata dell’epoca.

Che la destra cerchi di attirare l’attenzione mediatica sul caso Battisti è  comprensibile, onde distogliere l’opinione pubblica da una crisi epocale, dal proprio collasso politico, dai milioni di persone sulle piazze e in cassaintegrazione, dagli alpini che continuano a tornare a casa orizzontali rollati in tricolori sbiaditi. Perché anche gli altri si uniscano al macabro coro mi rimane ancora sconosciuto. Sui riti masochistici di quella che si ostinano a chiamare sinistra ho smesso di interrogarmi da tempo.

Ammetto che da un riformista come Lula uno scatto d’orgoglio come quello, sinceramente, non me lo aspettavo. Magari più dalla suo successore che ha conosciuto lotta armata, carcere ed esilio.

Patetiche sinceramente mi appaiono le minacce rivolte al Brasile.  Tra tre giorni, i veri poteri nazionali (finmeccanica e sui appalti miliardari di ammodernamento dell’apparato bellico brasiliano) avranno ricondotto a più miti consigli i riottosi e il parlamento ratificherà l’accordo militare con il paese americano.

Sul grip sociale di tale vicenda le telecamere sono state impietose. 4 gatti ai presidi (2 fascisti e 2 consiglieri circoscrizionali coscritti a forza tra i manifestanti).

Chi si ricorda il furore diplomatico con cui l’italia ha chiesto al Giappone l’estradizione di Delfo Zorzi, che nel paese del sol levante, dopo aver messo le bombe a Bologna,  ha aperto una serie di ristoranti italiani ed è diventato miliardario ?(con i soldi  dei servizi segreti, cioè i miei). Ho il suo coimputato nel processo, il forzanovista Roberto Fiore, che nel periodo dell’esilio londinese ha fatto palate di soldi con la sua organizzazione di accoglienza degli studenti (fasci) italiani?

Con che coraggio la farnesina avrebbe potuto chiedere al sud africa di distogliere il generale Maletti, il depistatore della strage di Milano, dalle sue incombenze del suo vasto ranch e rientrare in Italia dove l’aspettava una condanna passata in giudicato.

Mentre scrivo penso che dietro tutte queste storie ci sono i corpi e le speranze di trecento donne e uomini, che continuano a vivere tombati dentro i sarcofaghi carcerari. 300 combattenti di una guerra persa ma peggio ancora dimenticata e distorta.  Trecento crocifissi nell’acciaio e nel cemento che non scontano nessuna pena, essi subiscono la vendetta rabbiosa dello stato verso chi ha osato farlo vacillare, metterlo in dubbio prima che in crisi. Cesare, al di la della sua storia, è diventato il simbolo della vendetta, dell’odio profondo che è l’essenza stessa dello stato. Cesare è il simbolo della debolezza dello stato.

Trecento rivoluzionari in galera o a misure restrittive delle libertà personali da oltre trenta anni.

“questi compagni vanno amati, rispettati, LIBERATI”

AccaCiElle


NON FATECI GIRARE LE PALE! – PERGOLA 19.11.10

PERGOLA 19.11.10


NOI E I LAVORATORI IN MIMETICA: LETTERA APERTA AL SINDACO BALDELLI

NOI, GLI ALPINI DI PIANURA,I LAVORATORI IN MIMETICA, IL NOSTRO SINDACO

Che lo creda o no anche noi il 9 ottobre siamo rimasti costernati, come lo siamo sempre quando apprendiamo che quel giorno sono morti dei lavoratori. Sempre e non solo per i fatti manifestamente eclatanti, come quando ascoltiamo che sette operai vengono fritti in una fonderia per permettere ad una multinazionale di risparmiare gli ultimi euro per permettersi di fare cifra tonda ai 3 (tre) miliardi di utile oppure quando un padrone umbro ha l’ardire di chiedere alle famiglie degli operai morti, un risarcimento milionario per i danni del rogo in cui sono deceduti.
Quel giorno altri 4 lavoratori si sono aggiunti alla triste contabilità che ci dice che quotidianamente, in questo paese, crisi o non crisi, quasi tre lavoratori muoiono sul lavoro. Sabati, domeniche, pasque e natali compresi.
4 lavoratori, 4 alpini di pianura, gente del sud povero di questo paese. Gente della piana delle Murge, delle campagne siciliane. Così lontani, per estrazione e cultura, dalle Alpi, cosi prossimi alla miseria. Morti sul quel grande cantiere della ristrutturazione capitalistica che è l’Afghanistan, cantiere su cui lavorano operai di tutto il pianeta. Disoccupati di Liverpool, precari di Londra, migranti latinoamericani che sperano nella “green card” che gli permetta l’agognata cittadinanza statunitense, se escono vivi, da tre anni di macello afgano. E nell’impresa concorrente, oltre che miseri agricoltori pastun, disoccupati del Cairo, abitanti delle bidonville di Damasco. Gente che salta per aria, oltre che per il “paradiso di latte e miele”, più prosaicamente per il vitalizio per i figli e per la vedova. In mezzo qualche milione di vittime. I danni collaterali della democrazia.
Alla fine della guerra, scriveva Brecht, nel paese dei vinti, erano i poveri a fare la fame, esattamente come nel paese dei vincitori. Ma dietro ogni lavoro c’è sempre chi ci specula. Non è un caso che il presidente di quel lontano cantiere è un “padrone”. Fino al 2000 è stato l’amministratore delegato della UNOCAL, multinazionale dell’energia incaricata del gasdotto afgano. Per non parlare degli sciacalli dell’industria di guerra e su chi la finanzia. Magari anche la corporation che smercia i miliardi della fiorente industria dell’eroina, azienda quasi annientata durante il regime dei sagrestani islamici.
Facciamo uno sforzo intellettuale e usciamo dalle ipocrisie. Sciacquiamo bene la bocca dai termini roboanti come democrazia, sviluppo, guerra umanitaria e polizia internazionale. Si sta parlando di dotare di missili gli aerei della missione afgana. Non ho mai sentito una sua proposta per dotare i nostri vigili di lanciafiamme o per le blindature degli scuolabus. Quello che succede tra quelle lontane montagne non ha niente di poliziesco o di umanitario. Proviamo a chiamarlo con il suo nome: quel macello si chiama guerra.
C’è un patto fondante che tiene insieme, nella sostanza, questo paese. E lo tiene unito ben oltre la retorica di una conquista che, centocinquanta anni fa, non ha unito un bel niente. Lo tiene unito su alcuni cardini sui quali, ne siamo certi, siamo la maggioranza concreta nel paese.
“L’Italia ripudia la guerra..” e scende in piazza a milioni ogni volta a ricordarlo alle varie elitè politiche che dominano, in assoluta e autistica autoreferenzialità, alternandosi nella guida della nazione. In Afghanistan c’è una guerra, che ogni cittadino, per costituzione, ripudia.
Lo saprà certamente, ma lo ribadiamo per rinfrescare la memoria dei puristi flagellatori della “Casta”. Ogni lavoratore, su quel lontano teatro, ci costa più di un senatore e le sue auto blu. Come un senato con 4000 onorevoli, mantenuto con i soldi dei sempre più miseri lavoratori italiani. E mettiamoci anche una camera dei 2500 deputati nel sud del Libano e un bel consiglio regionale . balcanico con dentro altri 500 consiglieri tra Kossovo e Bosnia. Vuoi vedere che con tutti quei soldi risparmiati riusciamo magari anche a trovare i finanziamenti per finire i lavori nella ex scuola di Bellisio da dove 5 anni fa un suo predecessore ci ha sgomberati per urgenze restaurative. Magari generano anche quei surplus di bilancio per finanziare un piatto di pasta per i bambini che non possono permettersi la mensa nell’opulento nord.
Massimo onore e rispetto, dunque, per i lavoratori in mimetica morti in Afghanistan. Mettiamo manifesti e scriviamolo sui muri. Dedichiamogli piazze e minuti di silenzio. Facciamolo sempre però, anche per i lavoratori morti nei subappalti dell’alta velocità. Per i migranti che ogni giorno muoiono nei nostri cantieri. Per gli eroi che raccolgono arance per 16 ore a 20 euro al giorno a Rosarno. Lodiamo all’inizio di ogni consiglio comunale patrioticità e senso dell’onore di precari della scuola, degli sfruttati dei call center, degli stagionali della riviera. Per le badanti, per i metalmeccanici, i cassintegrati. Tributiamo loro il giusto riconoscimento, anche economico.
Non scriveremo sui muri “Afghanistan 4 – Italia 0”, non è nel nostro stile. Però ci permetta di pensare che ieri a Roma si è giocato un bel derby democratico (questo si): Marchionne, Sacconi e Gelmini: zero. Lavoratori, precari studenti – un milione!

collettivo squola